Mauro Uberti

PERCHÉ OGGI UNO STRUMENTO ANTICO?

Gli strumenti musicali

Milano, Gruppo Editoriale Jackson

Maggio 1980

 

Che significato ha eseguire oggi musica antica sugli strumenti antichi? La domanda può sembrare sciocca. Parrebbe ovvio infatti che nel corso di un'operazione culturale come quella del recupero delle musiche dei tempi passati ci si debba sforzare di restituirle nella loro integrità, compresa quella timbrica. Invece qui casca l'asino (ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti deve considerarsi affatto casuale) perché considerare degno di interesse soltanto uno dei quattro parametri del suono - altezza, intensità, timbro e durata - significa rinunciare in partenza alla riconquista del restante 75% delle caratteristiche fisiche del messaggio sonoro. E tuttavia è ciò che più sovente accade.

Il conservatorio ci ha insegnato che ad ogni segno della notazione musicale corrisponde biunivocamente un fenomeno sonoro (=nota) di frequenza, durata ed intensità indicati dallo spartito ed il cui timbro è implicito nella destinazione del pezzo ad uno strumento determinato. Nessun dubbio, quindi, che, leggendo un preludio del «Clavicembalo ben temperato» su di una edizione critica (molto più raffinato sarà chiamarla alla tedesca «urtext») secondo le regole imparate per l'esame di teoria e solfeggio, noi veniamo a conoscere e possiamo comunicare agli ascoltatori il pensiero originale di Giovanni Sebastiano Bach. Se poi avremo spinto il nostro scrupolo filologico fino a suonarlo su di un clavicembalo, saremo sicuri di aver conseguito la perfezione.

Niente di più falso, come pochi, a quanto pare, sanno. Che il significato dei segni musicali sia cambiato nel corso dei secoli e che, quindi, le nostre nozioni di teoria musicale siano tutte da rivedere è stampato persino su trattati e riviste pubblicati in Italia, per cui ci guardiamo dal ripetere qui (malamente) cose molto ben spiegate altrove. Ci fermeremo invece ad osservare che cosa comporta l'adozione dello strumento antico nella prassi esecutiva attuale dando per acquisite le conoscenze di cui sopra.

La musica antica è di moda. Lo si constata dalla frequenza crescente dei concerti di questo genere e dall'affluenza amatoriale, dalla produzione e dalla vendita dei dischi e degli strumenti cosiddetti «antichi»; da tutto quell'insieme, insomma, di manifestazioni che stanno a denunciare la presenza di un fenomeno di massa. In Italia, tuttavia, il fenomeno è recente e praticamente estraneo alla cultura ufficiale, (se per cultura ufficiale intendiamo l'istruzione impartita dallo Stato nei conservatori di musica) dal momento che essa è rappresentata quasi esclusivamente da poche cattedre di clavicembalo e flauto dolce, istituite nei conservatori da qualche direttore più illuminato e perdute nel «gurgite vasto» degli strumenti dell'orchestra moderna. Ben diversa la situazione nelle nazioni europee settentrionali, soprattutto in Inghilterra dove l'azione appassionata di Arnold Dolmetsch (1858-1940), costruttore di strumenti musicali, musicologo, violinista ed insegnante, portò molto precocemente alla coscienza dell'importanza estetica, prima che filologica, del recupero dell'antica prassi esecutiva.

Il suo trattato «The interpretation of the Music of the 17th and 18th Centuries ... Londra, 1915» ancora oggi è tutt'altro che superato. Il che non vuol dire che anche in Italia non siano esistiti tentativi isolati di recupero della musica antica anche in tempi passati. Già nel 1891, per esempio, Giuseppe Branzoli (1845-1904), mandolinista e compositore, pubblicava un «Sunto storico dell'intavolatura e Metodo Pratico per suonare il Liuto» che dovette avere un pubblico di acquirenti, senza di che l'editore Venturini di Roma non l'avrebbe certamente pubblicato (abbiamo fatto riferimento al Branzoli e non al più noto Oskar Chilesotti (1848-1916), proprio per le implicazioni commerciali, quindi più largamente sociali, insite nella pubblicazione di un metodo). Ma si tratta appunto di casi isolati, cosi come furono casi isolati le viole da gamba ottocentesche (sbagliate, sia pure, in tanti caratteri costruttivi) che si vedono rispuntare oggi che questo strumento è in fase di riscoperta. Non comparirono, invece, quando, negli anni '30, Gian Francesco Malipiero portò in giro per l'Italia i madrigali di Monteverdi eseguiti da un complesso composto da Rita De Vincenzi (soprano), Rachele Maragliano Mori (mezzo soprano) e tre o quattro archi moderni. Non era, infatti, riuscito a trovare altre voci al servizio delle intelligenze adatte (erano i tempi in cui i cantanti si guardavano dal cantare musiche che non fossero romantiche o veriste e le due signore citate costituivano due splendide eccezioni) né le viole da gamba necessarie ad integrare un quintetto secondo la prassi rinascimentale.

Non è che la situazione oggi sia molto migliorata, ma, almeno per quanto riguarda gli esecutori, con un poco di buona volontà e qualche mezzo finanziario a disposizione, un complesso rinascimentale o barocco serio, estraendo le singole persone da quelli meno seri che vanno circolando, si riuscirebbe anche a metterlo su. La difficoltà vera, almeno nel mercato italiano, è quella di impiantare un organico di strumenti antichi degni di questo nome. Non intendiamo parlare di strumenti originali ma proprio di ciò che comunemente si intende parlando di mercato: di buone copie di strumenti antichi e, considerando in particolare il mercato italiano, di buone copie fabbricate in Italia.

L'affermazione può parere azzardata o, comunque, pessimistica e invece è tristemente aderente alla realtà. E' vero che è relativamente facile acquistare, in Italia o all'estero, uno strumento cosiddetto «antico», ma, nella maggior parte dei casi, si tratta di brutti rifacimenti che rassomigliano agli originali soltanto nei caratteri superficiali. Il recupero della musica antica eseguito con gli strumenti dell'epoca è ancora troppo sovente un fatto di esotismo storico, vissuto a livello epidermico e fondato, come già detto, sulla convinzione che basti comperarsi un flauto dolce e un clavicembalo ed eseguirvi le musiche che fino a ieri venivano eseguite con flauto Böhm e pianoforte per aver esaurito il compito. Si crede cioè, sottolineiamo ancora, che il recupero della musica antica consista nel ritrovare il timbro originale. Il discorso invece, è molto più lungo e prevede un grosso lavoro di riconquista e di appropriazione della cultura (cultura intesa in senso antropologico) e dell'espressività dei tempi passati.

Riscoprire il posto e la funzione dello strumento nel suo ambiente originale è una delle condizioni indispensabili per sfruttarne la capacità di comunicazione. Ogni epoca, infatti, ha prodotto gli strumenti più adatti a trasmettere i messaggi musicali del momento e uno dei compiti dell'esecutore moderno è quello di capire e rivivere di volta in volta la coerenza esistente fra il messaggio musicale ed il mezzo di trasmissione costituito dallo strumento; il significato dell'adozione dello strumento antico è principalmente questo.

I codici della comunicazione umana, della quale la musica non è che un aspetto particolare, si trovano in continua evoluzione. Le arti figurative che, per trasmettere i loro messaggi non hanno bisogno di esecutori, lo dimostrano molto chiaramente. Si scelga, per esempio, un qualsiasi episodio evangelico - una nascita, una deposizione o qualunque altro si voglia - che, per il carattere sacro del testo letterario, costituisce una narrazione immutata nei secoli e si dovrà constatare come le diverse epoche lo abbiamo realizzato pittoricamente secondo codici espressivi diversi e inconfondibili. Nel campo dell'esecuzione musicale ha avuto luogo una evoluzione corrispondente e parallela, della quale ci sono rimaste documentazioni precise ed abbondanti, che ci permettono di ricostruire con buona approssimazione l'espressività esecutiva, legata alle musiche dei diversi secoli. In particolare, gli insegnamenti relativi alle tecniche strumentali ci permettono di riscoprire con risultati impressionanti il modo antico di fraseggiare.

Ecco quindi che si arriva a capire il perché delle caratteristiche costruttive e musicali degli strumenti antichi e l'assurdità delle modifiche loro apportate nelle produzioni industriali attuali. Questi «perfezionamenti» nascono da un atteggiamento interpretativo diametralmente opposto a quello filologico, dall'intento cioè di appropriarsi delle musiche dei secoli passati interpretandole secondo le convinzioni espressive attuali senza tener conto delle deformazioni che tale operazione comporta.

Accadono così cose grottesche: il tocco «pianistico» dei clavicembali, le catenature a raggiera dei liuti, che conferiscono loro una risposta di tipo chitarristico, la chiave del diesis su ogni corda delle arpe rinascimentali, ecc. in base alla convinzione che, nel corso dei secoli, ma soprattutto delle ultime decine d'anni, nel campo dell'organologia si siano fatte scoperte delle quali oggi bisognerebbe tener conto.

Sulla pretesa imperfezione degli strumenti antichi e sulla loro inadeguatezza ad esprimere persino le musiche del proprio tempo si sono dette e si dicono molte sciocchezze. Si pensi, per fare l'esempio più comune, ai discorsi più volte ripetuti sulla superiorità del pianoforte sul clavicembalo. Basta invece prendere in esame gli aspetti significativi, dal punto di vista musicale, delle società delle epoche passate per trovarvi tutte le giustificazioni necessarie a spiegare la nascita, lo splendore e il declino di ogni strumento ed è proprio questa ricerca a rendere più affascinante il recupero di musiche che, già con la loro bellezza, ripagano ampiamente della fatica necessaria alla loro riscoperta. E' molto interessante, infatti, prendere in esame gli strumenti antichi nella loro globalità, considerandoli come parti di un unico organismo musicale. La nascita di uno strumento è sempre condizionata da più fattori: le esigenze strettamente musicali, la sua destinazione specifica, lo stato di sviluppo della tecnologia del momento, la reperibilità dei materiali necessari a costruirlo, il loro costo, ecc. Vediamoli.

In epoca medioevale alla «parola» come tale sono ancora attribuiti valori di tipo magico e religioso (ma non se ne sorrida: si pensi al valore persino legale, attribuito ancora oggi alla «parola» data in giuramento) che fanno passare in sottordine gli altri linguaggi, pittorico, melodico, ecc., è inevitabile che la musica vocale abbia, nelle convenzioni dell'epoca, una dignità e un valore nettamente superiori a quella strumentale. Accade così che, quando già il gregoriano è giunto a vette insuperate di raffinatezza ideativa ed esecutiva (le recenti acquisizioni della scuola di Dom Cardine lo dimostrano) gli strumenti siano ancora relegati in un ruolo musicalmente e socialmente secondario.

Le occasioni nelle quali si fa musica (e parliamo necessariamente di musica dotta, di quella cioè, che ha lasciato una traccia scritta di sé) sono ben localizzate: i monasteri, le cattedrali e le sale gentilizie.

Nei monasteri non esistono dubbi: la musica è il gregoriano, amplificazione lirica della parola sacra, e soltanto il gregoriano. Il coro è costituito da tutta la comunità, composta talora di centinaia di monaci, e non esistono problemi per riempire di suono le navate della chiesa.

Nelle cattedrali la situazione è diversa. La polifonia nascente abbisogna di cantori molto esperti tanto dal punto di vista vocale che da quello musicale, i quali per conseguire l'abilità necessaria devono essere professionisti e pertanto prestare la loro opera a pagamento. Purtroppo la società medioevale non è ricca come più tardi quella barocca che riusciva a mantenere cori di «trenta et più cantori» e quindi salva capra e cavoli abbinando alle voci strumenti ad alta potenza sonora come tromboni e bombarde. Con questa artificio tutte le esigenze sono rispettate: il testo sacro continua ad essere cantato da voci umane e la parola è salva; è ottenuta la spettacolarità del rito perché la musica conserva una buona udibilità in ogni punto dell'edificio sacro mentre viene attuata un'economia di gestione proporzionata alla situazione finanziaria del momento.

Nelle «camere» gentilizie il problema è l'opposto ma, come sovente accade, gli estremi si toccano. Il problema della parola è questa volta la comprensibilità, non per un fatto sacro ma per un fatto poetico. L'ambiente in cui si fa musica è moderatamente ampio, l'uditorio è ristretto, colto, raffinato e, pertanto, della parola interessa oltre al significato il valore espressivo e il modo in cui viene porta. Di qui la necessità che gli strumenti che l'accompagnano non la sovrastino con la potenza del suono ma, anzi, le stiano in sottordine.

Essendo la voce il modello ideale di tutta la musica, ecco che gli strumenti cercano di imitarne il modo di esprimersi sviluppando le tecniche opportune. La parola trova la sua espressione, manchiamo a dirlo, nella modulazione dei quattro parametri del suono e si hanno così quattro tipi di accento - intensivo, quantitativo, melodico e timbrico - fra loro interagenti e che la retorica greco-romana aveva conosciuto a perfezione giungendo a teorizzarli minuziosamente. Questa riprende nuova vita nelle lingue romanze che, dall'epoca medioevale a quella barocca, prediligono gli accenti quantitativi e melodici.

Ecco allora gli strumenti sviluppare tecniche che, per mezzo della «ineguaglianza» e degli abbellimenti, tendono a riprodurre queste caratteristiche della voce. E' sintomatico che, pur conoscendo perfettamente il principio della corda percossa, applicato nello Hackbrett, il salterio medioevale tedesco suonato con due battenti come l'attuale cymbalom ungherese, e nel dulcimer inglese, fino alla fine del XVII secolo non si senta l'esigenza di strumenti nei quali l'accento intensivo prevalga su quello quantitativo.

La situazione rimane sostanzialmente immutata, per quanto riguarda il riunirsi degli strumenti in due gruppi, rispettivamente a forte e debole sonorità, sino all'apparire del teatro, ambiente di volume intermedio fra la chiesa (o l'aria libera, come avviene nel caso di cerimonie pubbliche) e la camera. Fu certamente, questo della maggior sonorità, uno dei fattori che intervennero nel far preferire, per esempio, in coincidenza col nascere ed il fiorire dell'opera, la famiglia delle viole da braccio a quelle delle viole da gamba.

Ridurre tutto a un fatto di potenza sarebbe però semplicistico. Sull'evoluzione degli strumenti musicali incisero, oltre a ovvii fattori di gusto e di natura musicale, fattori economici, tecnologici, sociali, ecc.

Si veda il caso delle corde armoniche. In Italia, fin dall'undicesimo secolo, fiorisce l'arte di filare l'oro e l'argento per farne tessuti preziosi. L'oro e l'argento dorato (quest'ultimo più economico a parità di risultato estetico), venivano tirati mediante un argano attraverso le decine di fori successivi e sempre più piccoli di una filiera sino a ridurre la grossezza di una barra a quella di un capello. La doratura della barra di argento iniziale era così regolare che, pur quando essa si riduceva a quello spessore, lo strato d'oro rimaneva uniforme su tutta la superficie del filo. Allo stesso modo venivano filati gli altri metalli. Con tutto questo, per secoli, suonatori di strumenti ad arco e liutisti continuarono a dannarsi con le corde di budello, dal diametro inevitabilmente irregolare (e i legacci mobili posti come tastature sul manico di liuti e viole da gamba avevano proprio la funzione di compensarne le irregolarità) preferendo la dolce sonorità di queste al suono metallico delle regolarissime corde metalliche, adottate invece per salteri, clavicembali e cetere.

Soltanto sul finire del XVI secolo compaiono le corde rivestite, ottenute avvolgendo a spirale un filo d'argento attorno ad un'anima di seta. Fino a questo momento il liuto avrà le coppie di corde basse accordate in ottava. Le corde di minugia hanno un basso peso specifico e, pertanto, per ottenere le note basse, è necessario aumentarne il diametro a scapito della flessibilità e della conseguente attitudine a produrre armonici acuti. Questa povertà timbrica veniva compensata, secondo un criterio adottato anche nell'organo, producendo armonici acuti con una corda accordata all'ottava superiore e, quindi, necessariamente più sottile e flessibile. L'inevitabile differenza di timbro fra i due tipi di cori, quelli acuti, di corde all'unisono e quelli bassi, di corde in ottava, veniva sfruttata dai compositori per rendere chiari i dialoghi fra le parti con un'opportuna distribuzione della tessitura di queste.

Anche se ai tempi di Robert Dowland (1591-1641) e in ambiente inglese il liuto avrà i cori accordati all'unisono, è evidente che accordarlo in questo modo per tutta la sua letteratura significherà annullare un certo risultato previsto invece dal compositore rinascimentale. Rimanendo nell'argomento del liuto è da osservare come la sua costruzione sia uno dei campi in cui si stanno dando i più begli esempi di insipienza storica e musicale. E' noto che la catenatura a raggiera della chitarra si è diffusa in questo secolo, con l'intento e il risultato di accrescerne il volume di suono e di prolungarlo sul modello ideale del pianoforte.

Ebbene, esistono oggi liutai i quali, sostenendo che dei progressi della tecnica liutaria è necessario tener conto anche nella ricostruzione di uno strumento antico, applicano ai loro liuti la catenatura della chitarra moderna. Costoro evidentemente non sanno che il principio della catenatura a raggiera era perfettamente conosciuto anche in epoca rinascimentale e che tale principio trovava proprio nel liuto una delle sue applicazioni più sofisticate. Se si apre un liuto antico, infatti, e se ne osserva il rovescio della tavola armonica, si scopre che, in coincidenza con l'attacco della corda più acuta - sottile e scempia, come si sa, e quindi debole rispetto rispetto ai cori di due - vi sono due catenine a raggiera destinate a rinforzare il suono di quella e di quella soltanto. E' chiaro che, se il loro ideale di suono fosse stato quello della potenza e della persistenza, i liutai antichi avrebbero applicato il principio delle catenature a raggiera a tutta la tavola armonica del liuto. L'ideale del tempo, invece, era quello della chiarezza del fraseggio nei contrappunti, chiarezza che si ottiene meglio con transitori di attacco molto evidenti, dati da tutt'altre caratteristiche costruttive.

Il clavicembalo è l'altra grande vittima dell'impreparazione musicale e filologica dei costruttori (ma perché non dire: anche dei clavicembalisti?). Nella maggior parte dei casi si tratta di costruttori di pianoforti, passati a fabbricare lo strumento antico con lo stesso criterio lamentato a proposito dei costruttori di liuti, quello, cioè, di mettere a frutto l'esperienza tecnologica relativa agli strumenti moderni nella presunzione che si tratti di perfezionamenti. Nel caso del clavicembalo, data la complessità meccanica e acustica dello strumento, le conseguenze negative sul fatto musicale sono ancora maggiori. Nella ricerca di imitazione della voce e della parola, i cembalari ed i cembalisti avevano messo a punto tecniche costruttive ed esecutive raffinatissime, che permettevano fraseggi variamente articolati a seconda delle scuole nazionali e delle epoche. L'enunciazione più chiara di quest'intenzione, comune ai clavicembalisti ed agli organisti, è probabilmente quella di Dom Bédos (Francois Bédos de Celles, 1709-1779, monaco e organaro francese) ne «L'art du facteur d'orgues», 1766-78) il quale, trattando della costruzione degli organi automatici a rullo, suggerisce di lasciare brevissimi silenzi fra una nota e l'altra per dare il senso dell'articolazione consonantica. Questo intento, che Dom Bédos riferisce all'organo nel tempo in cui il clavicembalo viene sempre più rapidamente soppiantato dal pianoforte (anzi, per essere precisi, dal fortepiano), appare inequivocabile fin dalle prime documentazioni cinquecentesche sulla tecnica tastieristica, comune all'organo e al clavicembalo. Tutto, quindi, in questo strumento, dalla lunghezza dei tasti alla loro resistenza al tocco, dal transitorio d'attacco alla persistenza del suono, dal diametro delle corde al loro timbro, ecc., era rivolto a realizzare un ideale estetico affatto diverso da quello moderno del pianoforte e che sarebbe compito preciso dell'interprete riprodurre nelle esecuzioni.

I cembali commerciali attuali, invece, sembrano costruiti apposta per sollevare quanto più possibile il pianista (ché la concezione corrente del clavicembalista, a cominciare dai programmi ministeriali dei conservatori, è quella del pianista transfuga) da ogni sforzo di adattamento allo strumento antico con la conseguenza finale che cembalo e cembalista suonano troppo spesso come pianoforte e pianista falliti. I discorsi finora fatti potrebbero continuare ed estendersi a tutti gli altri strumenti antichi, ma sarebbero superflui: per tutti ritroveremmo sostanzialmente gli stessi problemi e le stesse situazioni.

Il senso di quanto detto può riassumersi in pochi concetti fondamentali. L'espressività musicale è cambiata profondamente durante i secoli, ma le testimonianze che ce ne sono rimaste ci consentono di ricostruirla con approssimazione soddisfacente, tanto è vero che musiche lontane da noi nel tempo e noiose e difficili all'ascolto se lette secondo il codice grafico ed espressivo moderni diventano facili e piacevoli se lette con criteri filologici. Non è vero che i costruttori antichi fossero ad uno stadio tecnologico arretrato. Essi, come i costruttori moderni, si sforzavano invece di soddisfare le esigenze tecniche ed espressive dei musicisti, i quali avevano ideali estetici profondamente diversi dai nostri. Lo strumento antico è un documento superstite, esattamente come lo sono una partitura od un trattato. Le sue caratteristiche di risposta manuale ed acustica rendono chiare ed evidenti in pratica al suonatore che applichi tecniche filologiche, coerenti alle musiche eseguite, tutte le indicazioni teoriche dei trattati e tornano a suggerirgli le idee musicali che le tecniche manuali servivano a realizzare.

Il senso dell'adozione di uno strumento antico è tutto qui. Nel caso in cui si tratti di uno strumento ricostruito con criteri filologici, sarà facile fare della musica antica; in caso diverso, tutto ciò che allo strumento manca dovrà essere aggiunto con tanta fatica e minori risultati dall'esecutore.

Come sempre.