MAURO UBERTI


Ideali estetici e tecniche vocali
agli albori del melodramma

Atti del convegno di studi
"La musica vocale: aspetti compositivi nella letteratura antica e contemporanea".

Associazione Ricercare Musica
Nuoro, 15-17 maggio 1992


Avevo pronto per questa chiacchierata il testo scritto che mi ritrovo fra le mani e che era pensato per un uditorio fino a questo momento del tutto astratto. Il ritrovarmi ora di fronte persone vive e reali, con una loro precisa individualità, mi rende antipatica l’idea di fare una diligente lettura di quanto avevo preparato e che chiunque altro a questo punto avrebbe potuto fare in mio luogo. Preferisco quindi chiudere l’incartamento e parlare a braccio, anche se ciò che dirò non corrisponderà esattamente a ciò che avevo previsto e sarà certamente meno ordinato.

Uno dei problemi principali che si pongono a chi voglia rivisitare con intento filologico le musiche vocali dei tempi passati è quello della tecnica con la quale cantarle. Il discorso che segue è rivolto ad esaminare il perché musicale – e non soltanto vocale – di questa particolare importanza.

In una relazione dedicata alle tecniche vocali non è inopportuno riprendere anzitutto in esame il concetto di "tecnica". Questo termine, che sta ad indicare l’esercizio di un’arte – arte in senso lato – effettuato con dottrina, implica la consapevolezza nell’uso degli strumenti opportuni. Nel caso specifico del canto lo strumento è costituito dal corpo.

Che nel canto si faccia un uso tecnico del corpo al fine di produrre "oggetti sonori" dotati di caratteristiche determinate non è forse così immediatamente evidente come per gli strumenti musicali. L’insegnante di strumento che chiede ai suoi allievi di produrre quello che in gergo musicale viene chiamato "bel suono" chiede loro di produrre un "oggetto sonoro" che, indipendentemente dall'uso che ne verrà fatto, sarà bello per il suo timbro in sé. In questo campo, però, il concetto di bellezza è tutt’altro che universale e dipende piuttosto dalla cultura di appartenenza. Un certo famoso esecutore di musiche antiche raccontava ad un congresso che, essendosi trovato una volta in un villaggio arabo e avendo sentito il suono caratteristico di uno strumento ad arco locale, era andato dietro alla musica per vederlo, ma, arrivato alla fonte del suono, aveva scoperto che si trattava di un violino occidentale. In altri termini: aveva constatato come un suonatore di cultura araba potesse perseguire e realizzare per mezzo di uno strumento di tradizione diversa dalla propria l'ideale timbrico della sua civiltà medio-orientale. Aveva inoltre potuto verificare sperimentalmente, possiamo aggiungere, quanta parte del suono di uno strumento sia in realtà il prodotto della mente del suonatore e quanto il timbro che gli si impone sia un fatto culturale. Potrebbe sembrare questa un’inutile digressione e invece mi pare che l’esempio del violino chiarisca bene ciò che avviene nella voce: lo strumento è sempre quello, ma se ne possono cavare suoni diversissimi.

E’ inevitabile, trattando di questo argomento, risalire al trattato di canto di Manuel Garçia 1 il quale descrive la tecnica vocale a laringe abbassata, nuova ai suoi tempi, con un’accuratezza di cui nessuno – né in campo artistico, né in campo scientifico – fino ai giorni nostri pare più essere stato capace. Diventa allora necessario mettere a fuoco il concetto di tecnica vocale. La parola "tecnica" fa pensare a un che di rigido e di obbligato, che non corrisponde esattamente a ciò che fa il cantante nell’emettere la voce. Sarebbe più calzante parlare di "comportamento fonatorio" usando un termine che rendesse meglio l'idea di una condotta vocale tendenziale, rivolta a produrre suoni i quali, pur nell'ambito di una certa variabilità abbiano caratteristiche definite; tuttavia "tecnica" è il termine usato abitualmente e quindi lo useremo anche noi.

Garçia descrive la tecnica vocale inventata in Italia attorno al 1830, vantandosi inoltre di averla conosciuta fin dal 1832 2. Egli, nel momento storico in cui vive, percepisce ovviamente il complesso problema delle tecniche vocali in termini diversi da quelli in cui lo percepiamo noi. Egli ha individuato chiaramente la possibilità di conferire alla voce "caratteri svariatissimi" 3 le cui manifestazioni estreme sono costituite dal "color chiaro" e dal "colore oscuro": "Questi colori devono essere considerati siccome i due principali; indipendentemente però da questi c’è un gran numero d’altri; i quali, perché si possano produrre, prendono gli uni dal color chiaro, gli altri dall’oscuro, quanto hanno di essenziale nel loro meccanismo" 4. Il suo problema artistico è quello di eseguire la musica del proprio tempo mentre il nostro è quello di eseguire musiche tratte da tutta la storia musicale; il problema tecnico, però, è fondamentalmente lo stesso.

Per quanto ne so io dobbiamo arrivare ad Alexis Wicart per ritrovare un riferimento chiaro all’esistenza di più tecniche di canto 5, ma, benché questa volta l’autore sia un medico, non ritroviamo una precisione descrittiva pari a quella del Garçia. Raoul Husson – naturalista e famoso ideatore di una teoria neurocronassica della produzione della voce (poi riconosciuta errata, ma che comunque ha avuto il merito di ricondurre l'attenzione dei fisiologi sui problemi vocali) – tornerà a fare un’altra descrizione di tecniche diverse nel canto 6. Preoccupato, però, di inquadrarle nella sua teoria personale, non raggiungerà risultati pratici equivalenti.

Garçia, dunque, nel decennio fra il '40 e il '50 del XIX secolo, descrive in particolare la tecnica che il tenore Domenico Donzelli, secondo quanto ipotizza il Della Corte 7, avrebbe usato per primo. Questo cantante (o qualcuno per lui, se l'ipotesi del Della Corte non fosse valida) scopre che, atteggiando l'apparato fonatorio in modo simile a quanto si fa in uno sbadiglio simulato – o, meglio, dissimulato – si risolve il problema del passaggio al registro superiore in un certo modo artificioso – dove "artificioso" deve intendersi come "fatto con arte" – e si ottiene una voce più potente, squillante, scura e drammatica.

Questo cambiamento tecnico ed estetico del canto è molto importante. Non dimentichiamo, infatti, che negli stessi anni si va esaurendo nell’opera il filone comico di stampo settecentesco e rossiniano (se togliamo l’Elisir d’amore e il Don Pasquale di Donizetti, che sono rispettivamente del 1832 e 1843, dovremo arrivare al 1893 per ritrovare col Falstaff di Verdi un vero capolavoro a soggetto comico) e che quindi l’adozione da parte dei cantanti di una voce dalla connotazione intrinsecamente drammatica sarà funzionale al loro repertorio perché d'ora in avanti i personaggi gronderanno tutti lacrime e sangue. Non fu un cambiamento così immediato e senza dissensi, ma da quel momento, tuttavia, entrò a far parte dell’uso un modo nuovo di adoperare la voce, destinato a diventare uno stereotipo culturale, dominante ancora ai giorni nostri.

In realtà da questo momento ha inizio anche un disorientamento della didattica 8 – e quindi della tecnica vocale – che dopo centosessant'anni non si è ancora risolto. L’eterogeneità dei comportamenti fonatori, che dobbiamo constatare ogni qual volta assistiamo ad uno spettacolo d’opera, ha le radici allora, cioè al momento in cui una tradizione vocale consolidata da secoli viene rinnegata per esigenze di potenza e di espressività tragica con una rivoluzione che tuttavia era giustificata dalle esigenze tecniche ed espressive dell'epoca.

Si aggiunga a questo l’importante vantaggio tecnico dato dal fatto che, con l’adozione della manovra "a sbadiglio" veniva risolto il problema del passaggio al registro superiore senza bisogno di andare in falsetto (anche se a prezzo di una minore comprensibilità). Ma questo è un aspetto prettamente tecnico della questione, che esula dal tema di oggi.

A questo punto, però, dobbiamo tornare ai giorni nostri. Accade in questo secolo che, il repertorio in uso non sia più quello del trentennio in corso come era avvenuto fino alla crisi moderna del linguaggio musicale, che tutti conosciamo. E’ consolante trovare accomunati in questo convegno nuorese studi sulla musica antica e studi sulla musica contemporanea, ma non si può non osservare che, nella vita quotidiana, le due musiche – se di più musiche ha senso parlare e non di una sola – si trovano accomunate invece nella disgrazia: oggi, infatti, così come quella antica, la musica contemporanea non fa parte del repertorio effettivamente in uso; dobbiamo osservare, cioè, che esiste una frattura fra le tre categorie dei soggetti implicati nell’attività musicale: i compositori, gli esecutori e gli ascoltatori. Mentre i compositori, costretti dalla crisi del linguaggio musicale, accelerano sempre più i tempi della sua evoluzione, l’uditorio non riesce a tenere il passo dei cambiamenti con la conseguenza che il repertorio in uso è costituito da musiche di giorno in giorno più lontane da noi. Nel contempo avviene pure che gli esecutori, legati ad un repertorio dei tempi passati e senza contatto effettivo con la musica di oggi, vadano sviluppando modi di suonare e di cantare che non hanno relazione né con quelli originali delle musiche del repertorio tradizionale né con quelli della musica contemporanea (e sull’inadeguatezza delle orchestre e dei cantanti moderni anche all’esecuzione delle musiche contemporanee ci sarebbe molto da dire). Non vi è il minimo dubbio sul fatto che i comportamenti musicali che adottiamo nell'anno di grazia 1992 per eseguire una Cavalleria rusticana composta nel 1890 non é più quello che si adottava cento anni fa, ma è anche chiaro che, nella maggior parte dei casi, non corrisponde nemmeno a quello che richiederebbe un compositore contemporaneo perché, soprattutto quando la richiesta è rivolta ad un cantante, questo protesta dicendo che quella contemporanea non é musica, che il modo di cantare richiesto rovinerebbe la sua voce e che pertanto non è disposto ad eseguirla. In sostanza: nella divaricazione fra le tre categorie dei compositori, degli esecutori e degli uditori ognuna di esse vive la musica per conto proprio ed a modo suo.

Ai giorni nostri avviene però anche qualcosa che in precedenza non era mai avvenuto: noi stiamo riscoprendo e rimettendo in uso la musica dei tempi passati risalendo fino ai trovatori e al gregoriano, cioè fin dove le documentazioni superstiti ce lo consentono. Questo fenomeno nei secoli precedenti non si era mai verificato. Accadeva, sì, che qualche musica dei tempi passati continuasse ad essere eseguita, ma si tratta di pochi capolavori isolati. Il Lasciatemi morire di Monteverdi, per esempio, lo si è continuato a cantare dal 1608 ai giorni nostri, ma per riscoprire la Lettera amorosa c’è voluta la trascrizione di Malipiero e l’esecuzione in quegli stessi anni di Rachele Maragliano Mori 9. Lo stesso è accaduto per l’Amarilli di Caccini: anche se, cantata da Beniamino Gigli l’aria si arricchisce dell'incanto della voce del grande tenore ed è di grande seduzione, essa ha poco a che fare con l'originale di Caccini. E potremmo fare tanti altri esempi.

Quanto più una musica é indipendente dal gusto dell'epoca in cui viene composta, tanto più essa è in grado di sopportare l'insulto di esecuzioni che la stravolgano e quanto più, invece, essa é datata tanto meno essa è in grado di sopportare esecuzioni fuori stile senza diventare incomprensibile e noiosa. La "Toccata e fuga in re minore" di Bach, per esempio, può essere bistrattata in tutti i modi possibili: cantata dai "Swingle Singers" o riprodotta da un computer; Lasciatemi morire, pur travisato, è ancora godibile nell’interpretazione di un cantante lirico; la Lettera amorosa no.

Tutte le arti che hanno una delle loro dimensioni nel tempo e quindi per la loro esistenza reale abbisognano di un’esecuzione, implicano la coerenza fra il linguaggio del compositore e quello degli esecutori. Quando il linguaggio dell’uno e degli altri coincidono si ottiene la massima comprensibilità e, nel caso in cui l'opera d'arte sia godibile, anche la massima godibilità. Quando i due linguaggi tendono ad essere diversi la comprensibilità diminuisce e, diminuita la godibilità, sopravviene la noia. A questo punto l'opera d'arte viene classificata fra le brutte e noiose e messa nel dimenticatoio.

Il fenomeno è simile a quello che si manifesta in campo linguistico. Ci sono lingue come il francese o l'inglese, la cui scrittura è profondamente diversa dalla pronuncia attuale; nondimeno c’è stato un tempo in cui, bene o male, i caratteri latini erano sufficienti a rappresentare il suono delle parole quali venivano pronunciate. Con l'andare del tempo, però, la scrittura si é cristallizzata in quelle forme arcaiche mentre la pronuncia ha subito un’evoluzione; di conseguenza, chi non conosca le regole di pronuncia dei tempi passati rischia – anzi, è sicuro – di distorcere ciò che pronuncia.

Un esempio sicuro di questo fatto è costituito da Le Printans di Claude Le Jeune. Questo compositore vive negli stessi anni del poeta Jean-Antoine de Baïf 10, inventore di un alfabeto adatto a rappresentare le caratteristiche prosodiche e fonetiche della poesia e ne mette in musica appunto Le Printans 11. La precisione nella scrittura della poesia di quel ciclo ci permette oggi di restituire la realtà timbrica e prosodica della composizione ma anche di capire che pronunciarla secondo le regole moderne equivale a cambiare la strumentazione di un brano sinfonico.

Leggere oggi le composizioni letterarie antiche secondo le regole di pronuncia odierne significa dunque alterarne gli aspetti formali. Lo stesso vale per la musica nella quale, prima ancora di pervenire al momento interpretativo, si deve tener conto di convenzioni per così dire grammaticali, che ci permettano di recuperarne la verità testuale e timbrica. Ora, poiché con le tecniche vocali in uso oggi si ottengono fonemi con caratteristiche timbriche diverse da quelle che si ottengono con le tecniche vocali antiche, impiegare tecniche vocali moderne per eseguire musiche antiche equivale a proporre realtà diverse dall’originale e, sostanzialmente, a commettere un falso. Nel migliore dei casi si offre all’ascoltatore una riproduzione dell’originale meno godibile perché, con i colori alterati, essa sarà certamente meno godibile di un'altra, rispettosa dei colori originali.

Nella ricerca di quale dovrebbe essere la voce che ci permetterebbe di eseguire le musiche pre-romantiche nel modo più opportuno, le strade da seguire che si presentano sono fondamentalmente due. Una è quella fisiologica. Il corpo umano non è cambiato dalle epoche di cui ci stiamo occupando e se troviamo – come effettivamente troviamo – documentazioni o indizi di natura anatomica, fisiologica e fonetica sulla voce, dovremmo essere in grado di ricostruire almeno a grandi linee il comportamento fonatorio corrispondente. L'altra strada è invece quella di chiederci quali fossero gli ideali estetici vocali dell'epoca e il problema diventa quello di sapere quale sarebbe la tecnica da impiegare per realizzarli. È questo il percorso che seguirò oggi per svolgere il tema al quale ho fatto una lunga, anzi lunghissima introduzione che non avevo previsto.

Per quanto riguarda i tempi passati e sul fatto che le tecniche vocali impiegate fossero più di una siamo in possesso di documenti espliciti. Sul fatto che le tecniche vocali siano più di una anche oggi non dovrebbero esistere dubbi in quanto, sia pure volendo rimanere nell'ambito della tradizione colta occidentale, si distingue abitualmente almeno fra "voci liriche" e "voci da camera". Tuttavia anche questa distinzione non è fatto così universalmente accettato e, nella pratica, c’è molta confusione. Si tende a dire che la tecnica vocale è una sola e che ciò che cambia sarebbe soltanto lo stile. Per poco che ci si pensi non è difficile comprendere, invece, che se la stessa persona è in grado di cantare di volta in volta con voce di colore diverso ciò che è cambiato è il comportamento fonatorio, cioè la tecnica vocale. Quello che viene chiamato stile ed è fatto tutto artistico è l’impiego della tecnica – cioè del comportamento fonatorio – nei modi e nei momenti opportuni.

Il primo dei documenti che conosco sulla molteplicità dei generi vocali antichi e, implicitamente, delle tecniche, é quello di una lettera di Camillo Maffei, presente nella stessa raccolta 12 in cui si trova l’altra sua più famosa lettera sul canto. L’autore, medico e ottimo dilettante di musica, dice: "[…] uno vuole sentire sonare la chitara, un’altro la lira, […] Lo S. Giovan Luigi il canto più ch’il suono. M. Cola Piero, il suono più ch’il canto, un biasimar la gorga, un’altro non vorrebbe sentir se non passaggi di garganta, un lodar il cantar dolce, e soave, un’altro il cantar nella cappella" 13. Il Maffei scrive nel 1562 e già si intravedono dalle sue parole tre diversi stili di canto: il canto di agilità, il canto espressivo e il canto di forza. Questo come lo intendiamo noi oggi non esiste ancora perché il canto lirico ha ancora da venire, ma esiste il "cantar nella cappella".

Esistono intanto due classi di ambienti, diversi per le dimensioni: le "camere", cioè i saloni di corte e delle case patrizie e le "cappelle", cioè le chiese e le cattedrali. Nelle prime si impiega un tipo di voce commisurato agli spazi, in funzione dei quali si formano pure le sonorità del liuto, della viola da gamba e degli altri strumenti da camera. In un ambiente di quelle dimensioni è naturale che la voce si orienti a sviluppare soprattutto le sue caratteristiche di agilità così come quelle timbriche ed espressive. Nelle "cappelle" si ha la situazione opposta. Per riempire di suono grandi cattedrali le voci devono essere soprattutto potenti. Non dimentichiamo inoltre che, siccome i cantanti sono stipendiati, è più conveniente retribuirne pochi che cantino forte anziché tanti che cantino piano.

Questo aspetto economico del reclutamento dei cantori è sempre esistito e le documentazioni sono inequivocabili. Nella sua Prattica di musica lo Zacconi – e siamo nel 1592 – ci dice che "molti imparano di cantare per cantare piano & nelle Cammere, ove s’abborrisce il gridar forte, & non sono dalla necessità astretti a cantar nelle Chiese, ò nelle Capelle ove cantano i Cantori stipendiati" 14 (e si sente il disprezzo dell’aristocratico che, a fronte del "cantore stipendiato", può permettersi di fare musica per solo diletto). I libri di conti ci fanno anche capire con le cifre perché "nelle Chiese, ò nelle Capelle" si dovesse "gridar forte". Prendendo come fonte lo studio di Giancarlo Rostirolla sulla Cappella Giulia negli anni in cui era diretta dal Palestrina 15 scopriamo che in quei diciotto anni il numero dei cantori oscillò fra un minimo di tredici e un massimo di diciannove, compresi i due o tre "pueri cantores". Se si tiene conto del fatto che la Cappella Giulia cantava in una basilica delle dimensioni di S. Pietro si può soltanto concludere che se i cantori, quando andava bene, erano diciannove, per farsi sentire un po’ più in là dell’altare della Confessione essi erano costretti a "gridar forte". Si sa che nella Cappella Dogale di S. Marco a Venezia cantavano più di trenta cantori i quali, rispetto ai diciannove della Cappella Giulia possono sembrare molti. In realtà quando li pensiamo suddivisi in molti cori – di Giovanni Gabrieli, per esempio, ci rimangono composizioni fino a venti voci – si capisce che, di fatto, essi dovevano essere dei solisti in grado di farsi sentire in tutta la basilica sia per le doti vocali naturali che per la tecnica adottata.

Il tipo di vocalità dei cantori professionisti dovette evolvere col mutare delle situazioni economiche e sociali. Dal fatto che nel XVII secolo si trovino i nomi degli stessi cantori negli elenchi delle cappelle pontificie e nelle descrizioni dei concerti privati nelle "camere" dei porporati romani o addirittura del papa regnante si deve inferire che essi facessero abitualmente uso di vocalità diverse a seconda delle necessità. Anche le condizioni in cui operava Monteverdi sembrano corrispondere a quelle romane citate e cioè di impiego degli stessi cantanti in situazioni musicali diverse. Nella lettera del 9 giugno 1610 al Duca di Mantova 16 egli fa un rapporto sopra "un certo contralto venuto da Modena desideroso egli di servire all’A. S.S." e dice: "l’ho condotto in santo pietro 17 et l’ho fatto cantare un motetto nell'organo et ho udito una bella voce gagliarda et longa, et cantando in sena giungeva benissimo senza discomodo in tutti i lochi" ma "non l'ho potuto sentire nei madrigali perché era già in pronto per partire et venire alli comandi de l’A. S.S.". Il tutto indica chiaramente che Monteverdi si aspettava da quello stesso contralto – un castrato, per intenderci – sia la capacità di cantare in chiesa e in teatro che quella di cantare "in camera". La cattedrale dei SS. Pietro e Paolo è la grande struttura disegnata da Giulio Romano 18 mentre la sala degli specchi del Castello Ducale di Mantova, che sarebbe la sala in cui la corte ascoltava musica e in cui si sarebbe svolta la prima rappresentazione dell’Orfeo, ha la forma e le dimensioni di una grande galleria. Almeno in questo caso, quindi, siamo in grado di valutare l’entità delle prestazioni vocali richieste ad un cantore di corte, che però dovesse cantare sia in chiesa che in camera. Da un’altra lettera dello stesso Monteverdi, quando già si trova a Venezia, possiamo ricavare invece indicazioni sul tipo di tecnica richiesta specificamente per i suoi melodrammi. Nella lettera del 9 dicembre 1616 ad Alessandro Striggio 19 manifesta la sua reticenza a musicare la Favola di Teti e Peleo del Conte Scipione Agnelli, fra l'altro perché "in loco di una voce delicata di cantore ce ne vorrebbe una sforzata" e a questo punto vien fatto di pensare che ci fossero comunque categorie di cantanti diversamente specializzate, di cui una preparata per cantare con voce "sforzata" – dove "sforzata" non deve essere inteso nel senso che daremmo oggi al termine e cioè di "voce emessa con sforzo", ma piuttosto in quello di "voce di forza" – e l’altra, verosimilmente destinata soprattutto alla camera, che cantava con "voce delicata".

E’ quindi opportuno ritornare al Maffei secondo il quale, come già detto, "un’altro non vorrebbe sentir se non passaggi di garganta, un lodar il cantar dolce, e soave, un’altro il cantar nella cappella" perché troviamo il ritratto del gusto vocale d’oggi. Il solo punto che abbisogna di un aggiornamento formale è il "cantar nella cappella", la cui tecnica di forza ha i suoi corrispettivi moderni nel canto teatrale romantico e verista. A parte questo le tre fondamentali categorie vocali di agilità ("passaggi di garganta"), espressione ("cantar dolce, e soave") e forza ("cantar nella cappella") sono già delineate e dimostrano di costituire l’immutabile area di esistenza della variabilità del gusto. Diventa anche opportuno riordinare il tutto in una piccola classificazione che preveda la distinzione fra le due categorie maggiori del canto "da cappella" e del canto "da camera" con quest’ultimo tendenzialmente differenziato fra il canto di espressione e quello di agilità.

Non è fuori luogo – per quanto certamente fuori periodo – ricordare quanto dirà ancora il Mancini dopo più di un secolo e mezzo: che la voce veramente predisposta al canto è quella "dotata dalla natura di agilità", ma che "ve ne sono […] atte alla sola espressione, ed in conseguenza ristrette al solo canto di note e parole […] Se poi a queste voci vi si scorgesse qualche grazia naturale, qualunque essa siasi, od in qualunque modo, si devono coltivare e perfezionare ecc." 20. E’ anche il caso di ricordare che, ai tempi della nascita del melodramma, l’agilità veniva chiamata "disposizione": come dire appunto "predisposizione all’agilità".

Stabilita dunque questa varietà di impiego della voce e restringendo il discorso alle prime opere in musica è chiaro che esse, stanti gli ambienti nei quali furono eseguite e la selezione sociale degli ascoltatori, non poterono essere cantate che con voce "da camera".

E’ interessante, tuttavia, prendere in esame anche i modi del canto "da cappella", del quale oggi ci si è fatta un’idea alquanto travisata. Nel recupero moderno della vocalità antica si riscontra purtroppo una prassi fatta di tanti pregiudizi e, ahimè, poche documentazioni. Le esecuzioni delle musiche corali dei nostri grandi polifonisti ci vengono proposte di solito con una vocalità di tipo madrigalistico, ma non so in base a quali criteri ciò avvenga. Per parte mia io conosco soltanto tre documenti di carattere medico, che riguardino in qualche modo la vocalità da cappella. Il primo è quello già citato di Scipione Maffei il quale, non dimentichiamo, era appunto medico 21: "Assai giovevole rimedio à far buona voce, è l’usare spesse volte gli argomenti, onde Nerone al quale tanto dilettava la musica, non havea à sdegno (come riferisce Suetonio tranquillo) l’usargli per potere più dolcemente cantare. Buono anco rimedio è il tenere una piastra di piombo nel stomaco, si come anco il medesimo Nerone facea".

Quando, al Liceo, mi ero ritrovato a tradurre il passo corrispondente 22 avevo riso con tutta la classe figurandomi Nerone occupato in pratiche ridicole e inutili; molti anni dopo ho capito invece che i fonaschi greci cui si affidava l’imperatore romano sapevano di voce quanto nemmeno immaginiamo. Il problema della propagazione della voce nel teatro greco era quello di tutti gli ambienti all'aperto, nei quale far giungere la voce all’uditorio costituisce la maggiore difficoltà. Ora, poiché le cose inutili di solito non si fanno, la corretta enunciazione del problema è invece: se i fonaschi greci per sviluppare la voce del cantante ponevano piastre di piombo "nel stomaco" di questo, quale era il fine del procedimento? La risposta ci viene dalla moderna fisioterapia toraco-polmonare, fra i cui metodi figura l’irrobustimento della muscolatura respiratoria, ottenuto con fasce di tessuto avvolte attorno al torace 23. Queste fasce, costringendo a respirare in opposizione ad una forza costrittiva, sviluppano i muscoli inspiratori ed incrementano la capacità di allargamento della base toracica. Dal punto di vista bio-meccanico l’allargamento della base toracica si traduce nell’accentuazione della discesa dei lobi polmonari inferiori nei seni costo-diaframmatici, nella conseguente maggiore discesa della laringe durante l’inspirazione e, finalmente, nell’allungamento del tratto faringeo del condotto vocale. Questo allungamento del tubo sonoro determina l’abbassamento generale delle frequenze di risonanza, della prima formante in particolare e, quindi, la sensazione di un generale iscurimento della voce. Cantare in questo modo è, dal punto di vista respiratorio, certamente più faticoso, ma poiché le frequenze basse si diffondono nello spazio più facilmente di quelle acute, dal punto di vista acustico in generale e della fatica vocale in particolare la trovata didattica dei fonaschi greci per educare le voci a parlare o cantare all'aperto era tra le migliori possibili. Da Camillo Maffei veniamo a sapere che nel 1562 questa pratica era ancora – o di nuovo – impiegata.

Che non fosse una sua idea personale si desume almeno dal fatto che, pochi decenni dopo, il trattato di ginnastica del Mercuriali propone il sistema delle fasce respiratorie, che avremmo creduto moderno, in modo del tutto autonomo e l’incisione che viene qui riprodotta non lascia adito a dubbi 24. È evidente che, a questo punto, gli ideali estetici vocali che ci vengono proposti dai cori moderni – soprattutto da quelli inglesi – hanno da essere ripresi in esame.

C’è un motivo preciso per fare riferimento ai cori inglesi. È riconosciuto che la diffusione moderna della musica antica è merito soprattutto di musicisti inglesi e olandesi. Questo non significa, però, che, per il solo fatto di essere stati fra i primi essi siano sempre i migliori; di solito, infatti, questi esecutori tendono a leggere indifferentemente le musiche antiche delle diverse scuole nazionali attraverso le griglie culturali proprie e sarebbe superfluo ricordare gli inconvenienti insiti in questo modo di procedere. Uno di questi è dato dall’impiego di tipi di vocalità incongrui. La vocalità inglese è tradizionalmente molto chiara in tutti i generi di musica e l’esempio moderno più noto è forse costituito dai "Beatles". In un’isola culturale quale è l’America, dove la persistenza di un cordone ombelicale con l’antica patria originale spinge alla conservazione di forme di espressione qui superate da tempo, questa vocalità chiara si è conservata in modo ancora più evidente e un esempio tipico è costituito dalla voce di Jeannette McDonald nel film La vedova allegra di Ernst Lubitsch, che ritorna sovente sugli schermi televisivi. Questo non significa che la vocalità di Palestrina e Monteverdi sia stata la stessa di Tallis e Dowland. Senza pretendere che la voce usata dagli italiani di allora fosse come quella degli attuali componenti della Cappella Sistina, i quali hanno ricevuto in conservatorio una formazione vocale di origine romantica, è certo però che i pochi documenti medici rimasti depongono a favore di una vocalità più scura di quella offerta dalla discografia moderna. È anche vero che l’allungamento del canale vocale, ottenuto per discesa del complesso polmoni-trachea-laringe dà un risultato timbrico diverso da quello che si ottiene con la manovra "a sbadiglio", ma questo è un aspetto tecnico della questione, troppo vasto per trovare spazio in questa sede.

Altro problema interessante: quale era lo sforzo vocale dei cantori da cappella? Il Mercuriali, la cui testimonianza 25 trova continuità in quanto scriverà due secoli dopo Bernardino Ramazzini da Carpi 26, il fondatore della medicina del lavoro, denuncia l’ernia come malattia professionale dei cantanti. La risposta da dare a chi si chieda quanto forte essi cantassero non può essere che la seguente: "tanto da farsi venire l'ernia". E chiaramente non è una battuta.

Dalle poche cose dette appare come tutto ciò che riguarda la vocalità antica e che diamo come assodato dovrebbe invece essere sottoposto a revisione critica. I problemi della voce corale non riguardano soltanto la tecnica vocale ma, soprattutto la prassi esecutiva. Sappiamo, per esempio, che strumenti come l'organo, il clavicembalo e il flauto dolce, che hanno dinamica nulla o comunque molto compressa, ottengono espressività giocando sull'agogica in generale e sull'ineguaglianza delle note in particolare. Sono qui presenti nell’uditorio degli organisti i quali, per formazione professionale, conoscono perfettamente la convenzione esecutiva strumentale cui mi sto riferendo; ma vorrei ricordare che essa è prassi documentatissima anche nella musica vocale, la cui enunciazione più chiara è forse nell’inizio dei Vari esercitii di Antonio Brunelli 27.

Per quanto riguarda il coro il riferimento più esplicito che io conosca è dato dalle più tarde Osservazioni di Andrea Adami da Bolsena 28, il quale, a proposito delle musiche da cantare al mercoledì santo, dice che "li salmi si dovranno dire andanti, e puntati", ma il problema musicale rimane aperto. Le cappelle musicali cantavano a gran voce – e la tradizione ancora in vigore presso la Cappella Sistina è inequivocabile – perché dovevano riempire un grande spazio acustico. E’ quindi ragionevole ipotizzare che esse, muovendosi in una dinamica compressa verso il "forte", tendessero ad avvalersi degli stessi mezzi espressivi dell’organo mentre, di converso, è il caso di ricordare la preoccupazione continua di imitazione della voce, da parte di tutti i tastieristi antichi. Diciamo allora che varrebbe la pena di prendere l’ipotesi in esame e verificarla sperimentalmente.

E veniamo finalmente, anche perché il tempo sta passando, a quello che doveva essere il punto centrale di questo discorso e cioè agli ideali estetici vocali al momento della nascita del melodramma.

L’ideale estetico vocale di oggi pare essere costituito da tre componenti fondamentali: potenza di emissione, tenuta di voce ed un timbro nel quale sono evidenti soprattutto le risonanze basse e lo squillo (voce in maschera) mentre il vibrato è tanto stabile da trasformarsi anch’esso in una componente timbrica. Lo studio dei documenti dei tempi della nascita del melodramma fa scoprire ideali estetici alquanto diversi.

La caratteristica più importante richiesta ad una voce di cantore appare essere la disposizione, quella che oggi chiamiamo agilità. Dal gregoriano a tutto l'Ottocento – per citare un esempio noto pensiamo a qual’è il tipo di scrittura usato da Verdi per Violetta in Traviata ancora nel 1853 – l'agilità è la caratteristica tecnica vocale più costante. Col verismo e con quanto ne è seguito si è perso coscienza del fatto che l'agilità non è soltanto un fatto tecnico, ma, prima di tutto un mezzo espressivo. I critici hanno avuto bisogno di una Callas per capirlo; i cultori di storia del linguaggio musicale non dovrebbero averne avuto bisogno perché i trattati sono inequivocabili. Il solito Camillo Maffei – ma potremmo citare parecchi altri autori sparsi in un ampio arco temporale – distingue fra " la voce passaggiata… minuta ed ordinata con intenzione di piacere all’orecchia…" e quella che "si fa differente anchora da quelle voci che con ordine, e diminuzione si fingono, portando le sillabe delle parole in bocca, si come farebbe alcuno quando dicesse (poniam per caso) Amor, fortuna, &c." 29. Egli distingue, cioè, fra agilità a scopo decorativo e diminuzioni eseguite a scopo espressivo per sottolineare le parole più pregnanti. Una trentina d’anni dopo, in anni ancor più vicini alla nascita del melodramma, Bovicelli 30 sviluppa soprattutto gli aspetti tecnici della diminuzione e parrebbe non interessarsi dei rapporti fra parole e musica. Con gli esempi pratici della seconda parte ci offre invece uno degli esempi più chiari della funzione espressiva dell’agilità presentando la diminuzione della parte di cantus di due famosi madrigali del Palestrina e di Cipriano de Rore: rispettivamente Io son ferito ahi lasso e Ancor che col partire. La cosa interessante è che, siccome di ognuno dei due madrigali egli ripropone immediatamente dopo un travestimento spirituale, dal confronto fra le due versioni appare chiaro l’impiego espressivo degli abbellimenti. Appare intanto che nella versione profana egli fa un uso abbondantissimo di diminuzioni mentre è più moderato nell’abbellimento dei travestimenti spirituali. Cambiano ovviamente i luoghi degli abbellimenti ma anche la loro architettura musicale 31, tanto che si potrebbe incominciare da questi per delineare un atlante delle diminuzioni e del loro valore semantico.

Volendo abbozzare una prima organizzazione della tecnica della diminuzione possiamo osservare che i modi musicali di dare enfasi a singole parole da parte del compositore sono fondamentalmente quattro:

1. Note di valore. La parola pregnante viene messa in evidenza dandole durata maggiore di quella data alle parole vicine e la sillaba più importante, che di solito è quella tonica, sottolineata con una o più note di valore.

2. Diminuzione. E’ l’artificio di mettere più note minute in luogo di una o poche note di valore. Il movimento di note con cui la parola viene sottolineata la mette in evidenza per il meccanismo psicofisico opposto al precedente: invece che con l’intensificazione dello stimolo, data dalla maggiore durata si ottiene il richiamo dell’attenzione sulla parola per mezzo del rapido susseguirsi di più stimoli.

3. Note puntate. E’ facile osservare che quando la sottolineatura da dare alla parola implica un'esclamazione, questa viene realizzata in musica con una nota puntata. Quale tipo di esclamazione? Ce lo dice sempre il senso della parola che sopporta la nota puntata. L'esclamazione può essere di gioia, di dolore, di sorpresa, di ira e via dicendo e compito dell’interprete è quello di leggere fra le parole e le note per stabilirlo. Eccezione a questa regola sembrerebbero essere le note puntate che si trovano sovente su parole sprovviste di valore descrittivo: articoli, preposizioni, ecc. In questi casi, però, l’allungamento delle particelle serve ad abbreviare la prima sillaba della parola pregnante che le segue per cui risulta soltanto spostato il luogo della concitazione.

4. Dissonanza. La dissonanza, soprattutto se non preparata, dà rilievo drammatico alla parola da enfatizzare e la sua connotazione è però sempre a carattere doloroso.

Fondamentalmente i mezzi sono questi, per cui, con una semplice occhiata alla partitura, dalle note di valore sapremo subito quali sono le parole da sottolineare col peso della voce, quelle da esclamare perché musicate con note puntate e quelle da mettere in rilievo dopo aver capito dalla loro struttura quale connotazione aveva il testo per il compositore. Esiste tutto un vocabolario di luoghi comuni espressivi, ricorrenti dall’antichità ai giorni nostri, che verosimilmente fanno parte della struttura psicologica umana e che meriterebbero un esame sistematico per ricavarne la grammatica di base dell’espressione musicale.

Sul modo di eseguire le diminuzioni troviamo poi indicazioni abbastanza vaste e precise. Nonostante questo i celebrati esecutori d’oltralpe moderni sembrano essersi fermati al solfeggio delle note musicali. Troppo sovente, per esempio, il trillo cacciniano viene eseguito come una raffica di risate benché il Rognoni Taegio dica molto chiaramente: "Sono certi Cantori, che alle volte hanno un certo modo di gorgheggiare (alla morea) battendo il passaggio à un certo modo da tutti dispiacevole, cantando aaa, che pare, che ridano, costoro si possono assomigliare a quegli Etiopiani, ò Mori, che racconta il Viaggio di Venezia in Gierusalemme; dice, che tal gente ne’ Sacrificij loro cantano in questo modo, che par che ridano mostrando quanti denti hanno in bocca, da qui imparino, che la gorga vuol venire dal petto, e non dalla gola" 32.

Il Bovicelli dice che "Le biscrome poi, oltre alla disposizion della voce devono esser spiccate bene" 33. Quanto spiccate bene? Il Brunelli vent'anni dopo richiederà ancora un modo di cantare simile: "le crome debbono cantarsi punteggiate, & ribattute con la gola, e non con la bocca, come molti usono, che non fanno differenza dal ribatterle con la bocca a ribatterle con la gola, & questo avviene per la poca cognitione, che loro hanno. Le semicrome non si cantano punteggiate, & questo avviene per la loro velocità; ma si bene si devono battere con la gola, distintamente l’una dall’altra, acciò il passaggio venga reale. Perche tutta la forza della dispositione consiste nel ribattimento della gola" 34.

Come si vede, sulla pratica dell’agilità i due trattatisti non vanno molto più in là del solfeggio e noi resteremmo con gravi dubbi se, leggendo un trattato di un secolo più tardo, quello del Tosi, non ne fossimo illuminati scoprendo che il semplice buon senso avrebbe dovuto farci da guida: "il passo sia scivolato e strascinato nel patetico perché faccia miglior effetto che battuto" 35 ed effettivamente per manifestare un'emozione di tipo patetico siamo indotti a legare mentre stacchiamo per ottenere un effetto brillante. Quanto staccato? Sarà l'espressività insita nella psicologia umana a indicare quanto è necessario per comunicare all'ascoltatore l’"affetto" desiderato.

Il riferimento alle strutture psicologiche innate mi fa ricordare anche che il jazz, musica che, certamente non ha radici nella nostra cultura, fa uso di tutti gli abbellimenti della musica barocca a noi familiari e questa osservazione apre ipotesi di ricerca piuttosto interessanti sulle basi biologiche della musica e sulle sovrastrutture culturali.

Altra qualità del canto: la sonorità o qualità fonetica delle parole. E’ una qualità che parrebbe essenzialmente letteraria e la cui documentazione teorica si manifesta infatti quasi esclusivamente in questo ambito. Cito da Il cannocchiale aristotelico 36 di Emanuele Tesauro, un retorico piemontese che scrive nel 1654: "Passo all’altro abellimento della Parola, che col nostro Autore 37 dinominammo SONORITA. Hor questa Sonorità nasce dalla BELTA delle SQVILLANTI VOCALI: dalla NETTEZZA delle CONSONANTI: & dalla GRANDEZZA delle Parole". Propongo come estremi di un arco che ricopre il periodo di nostro interesse due autori che, per la loro collocazione nel tempo delimitano poco più di un secolo: Pietro Bembo con le sue Prose della volgar lingua pubblicate nel 1525 38 e il citato Tesauro ma ricordo anche Il Predicatore di Francesco Panigarola 39, la cui comparsa nel 1609 coincide molto bene con gli albori del melodramma. L’interesse per il timbro delle vocali sentito come qualità estetica, viene espresso in modo più schematico e ordinato dal Bembo e dal Tesauro; il Panigarola, invece, disserta ampiamente sulle combinazioni di fonemi. Da tutti e tre appare chiarissimo il gusto per il timbro in sé e il senso della qualità vocale come mezzo di espressione. Cito ancora dal Tesauro: "A lei [alla /a/] si avvicina la E: che rattemperando alquanto la forza di quella con alcuna compression delle labra: si rende men chiara & men Sonora; ma alquanto più Dolce: & perciò ministra delle preghiere. Per contrario la O, allargando più di ogni altra l’organo della voce; & più premendo i mantici del petto: manda un suono più Sonoro & più maschile che la A: ma men naturale & men dolce: acconcio pertanto à turbar gli animi più che a placarli. talche la A & la O frà lor soperchiandosi, l’una in Sonorità, l’altra in Dolcezza, stan piatendo di nobiltà, come la lira, & la tromba" 40.

Se facciamo un'analisi dei madrigali degli anni in cui nasce il melodramma, troviamo che i compositori scelgono i testi fra quelli di poeti che abbiano fatto l’uso formale della parola più raffinato e, nell'ambito delle polifonie, contrappongono gli incisi con criteri timbrici. Così, per esempio, le vocali chiare /i/ ed /e/ vengono contrapposte tendenzialmente alle vocali scure e non troviamo mai la vocale di una voce impiegata a vocalizzare contro la stessa vocale in un’altra voce perché i due timbri si maschererebbero a vicenda. Ma, soprattutto, il timbro vocalico viene impiegato a fini espressivi: si pensi all’uso delle vocali /ó/ e /u/ combinate da Monteverdi in Ecco mormorar l’onde per rappresentare il mormorio iniziale e lo schiarirsi progressivo del timbro verso la /i/ di matutina attraverso le /a/ di aura 41. Troviamo quest'impiego coloristico della parola soprattutto nei madrigali perché la loro struttura in certo qual modo orchestrale lo richiede e lo consente, ma, ovviamente, lo ritroviamo sfruttato anzitutto dai poeti la cui esperienza in materia è antichissima.

Il discorso sarebbe enorme e mi limito a far vedere un'unica diapositiva dandone un minimo di spiegazione per chiarirne le basi fisiche. Si tratta di uno spettrogramma, cioè della rappresentazione tridimensionale di una voce cantata. Sull’asse orizzontale viene rappresentata la durata del fenomeno, su quello verticale la frequenza degli armonici che compongono la voce mentre i livelli di grigio ne rappresentano l’intensità. I gruppi di armonici più scuri – cioè più intensi – che appaiono a tre livelli sovrapposti corrispondono ad altrettante risonanze che imprimono al timbro la loro caratteristica e pertanto vengono chiamati formanti del timbro. Enunciando le cose in modo semplicistico dal punto di vista scientifico, ma accettabile agli effetti pratici, possiamo dire che il gruppo più basso, o prima formante, è quello che viene rinforzato dalla risonanza della cavità faringea e che imprime alla voce il colore generale. Gli armonici del gruppo centrale, o seconda formante, sono quelli che vengono rinforzati dalla bocca e hanno una funzione prevalente nella comprensibilità della parola. I gruppi di armonici più scuri – formanti – superiori vengono a cadere nella zona di maggiore sensibilità dell'orecchio e forniscono lo smalto che caratterizza la voce cosiddetta "in maschera". A questo punto, ammettendo per comodità che le componenti del timbro vocalico siano soltanto queste tre e indipendenti l’una dall’altra – affermazione peraltro non proprio esatta – si capisce perché esse possano essere dosate a mo’ degli ingredienti di una ricetta culinaria: il cantante preoccupato di mettere in evidenza soprattutto il timbro della propria voce dà enfasi alla regione bassa dello spettro sonoro e, magari, anche alla parte acuta, quella che le dà smalto mentre il cantante interessato alla parola cerca di mettere in evidenza la formante centrale, quella che dipende dalla bocca. Per quanto riguarda lo smalto, a seconda del grado di consapevolezza e di dominio del mezzo vocale, l’esecutore ne farà usi diversi: ritrovandosi per esempio a cantare con un liuto non sarà il caso che accentui troppo questa caratteristica timbrica perché verrebbe a determinare uno squilibrio fra la voce e lo strumento; se però si troverà a cantare in concerto con più strumenti egli, oltre che l’intensità del suono, avrà a disposizione la brillantezza del timbro come mezzo per emergere dall'insieme.

Sulla base di questa consapevolezza si può anche arguire quali possano essere state le diverse tecniche vocali e le diverse preparazioni professionali. Ecco allora il senso dell’audizione del contralto fatta da Monteverdi a Mantova: il cantante, a seconda che gli fosse stato chiesto di cantare un madrigale con un gruppo di voci soliste in una sala del Palazzo Ducale o solo con l’organo nella Cattedrale, avrebbe dovuto saper dare prestazioni di carattere opposto, con una flessibilità tecnica e stilistica che oggi non viene più richiesta.

Altra manifestazione estetica fondamentale è quella dell'espressione fonetica degli "affetti". Le documentazioni sugli albori del melodramma 42 sono ricche di documentazioni anche sull'espressione mimica degli stati d’animo. È il momento in cui, accanto al metodo scientifico sperimentale, sta nascendo la psicologia sotto forma di studio sistematico delle emozioni, chiamate allora "affetti". Sulla teoria degli affetti in epoca barocca esiste un’ampia letteratura ma mi pare utile ricordare che in campo musicale l’interesse per l’espressione mimica non nasce con l’invenzione dell’opera in musica. Silvestro Ganassi nella sua Regula Rubertina – e non dimentichiamo che egli si riferisce al suonatore di viola da gamba – dopo un primo capitolo dedicato al "Modo de tenir la viola" nel secondo ritiene di dover subito trattare "Del movimento de la persona". Se la precedenza data agli argomenti è indice dell’importanza ad essi attribuita non possiamo non osservare che, dopo aver detto all’allievo come si tengono la viola e l'arco – e già in questa esposizione gli argomenti estetici prevalgono su quelli funzionali – e prima di passare agli insegnamenti tecnici egli ritiene opportuno dirgli come si debba, di fatto, "recitar suonando": "Per il capitolo precedente s’ha ammaestrato il tenir la viola & aggiutar (sic) la persona accio stia sucinta con movere il braccio & mano, & e di necessita per duoi raggioni doversi movere con la persona: uno per non parere essere di pietra, l’altra per causa de la musica ben composta su le parole: pero il movere suo sera proportionato alla musica ben formata su le parole, dove se la musica sera mistevole per parole tal ancora gli membri fara la sua moventia conforme, e l’ochio come principal in giustificar la conforme moventia sera compagnato dal peto e bocca, e mento della faccia & il collo appressarsi alla spalla piu e manco secondo il bisogno a simile suggietto formato a tal parole" 43. E via di questo passo.

Gli "Avvertimenti particolari per chi cantarà recitando: & per chi suonarà" la Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Emilio de' Cavalieri 44 dicono che "Il segno .S. significa incoronata, la qual serve per pigliar fiato, & dar’un poco di tempo à fare qualche motivo". Che cosa si intenda per "motivo" lo si ricava dai precedenti "Avvertimenti per la presente Rappresentatione, à chi volesse farla recitar cantando": "Il Choro dovrà stare nel Palco parte à sedere, e parte in piedi, procurando sentir quello si rappresenta, e tra di loro alle volte cambiar di luoghi, & far motivi; & quando havranno da cantare, si levino in piedi per puoter fare li loro gesti, e poi ritornare à luoghi loro". Dato il contesto è evidente che la parola è usata per indicare "movimento del corpo, gesto, movenza" 45. Il numero delle "incoronate" segnate nella Rappresentatione è enorme e, stante quanto detto, il problema di una messa in scena prima che musicale è registico; tuttavia sono in grado di dire per esperienza che, realizzata con l’atteggiamento teatrale che si desume dagli "Avvertimenti", essa è di una comunicatività estrema e che continuare a discettare per stabilire se sia un melodramma o un oratorio è una questione di lana caprina: la Rappresentatione di Anima, et di Corpo potrà anche non essere né l’uno né l’altro però è certamente… una rappresentazione.

Quanto detto finora sulla mimica ha però importanti conseguenze sull’emissione della voce in quanto gli atteggiamenti mimici influiscono grandemente sul suo colore. Se, per esempio, ci sforziamo di parlare con la fronte aggrottata la voce prende un tono sofferto. Quando parliamo per telefono non abbiamo bisogno di vedere in faccia l’interlocutore per capirne dalla voce lo stato d’animo perché bastano atteggiamenti mimici di minima entità per imprimere alla voce inflessioni che lo tradiscono. Adottando una tecnica che non condizioni l'atteggiamento fonatorio, che consenta di imprimere alla voce inflessioni di natura teatrale, sarà possibile l’espressione degli affetti e le opere delle origini, la cui drammaturgia è fondata essenzialmente su questo aspetto della teatralità troveranno, almeno per quanto riguarda questa caratteristica vocale, la loro giusta dimensione.

Se ora per concludere tentiamo di tirare le somme, constatiamo che le idee attorno alle quali mi sono aggirato sono tre o quattro.

Molteplicità delle tecniche vocali. Documentatissime e, in epoca anteriore al melodramma, in numero di almeno due: da camera e da cappella. È ovvio che al momento in cui il teatro con l’inaugurazione nel 1637 del S. Cassiano di Venezia, si aprirà al pubblico pagante, al fine di ottenere il miglior rendimento finanziario dell’impresa gli ambienti che verranno costruiti avranno dimensioni intermedie fra la camera e la cattedrale e le tecniche vocali vi si dovranno adeguare. A questo punto, comunque, gli albori del melodramma saranno tramontati da un pezzo.

Caratteristiche fondamentali della vocalità quali appaiono dalle documentazioni.

1. Agilità. Agilità certamente, ma non da usignoli meccanici. Un mezzo espressivo, invece, rivolto soprattutto a rappresentare gli affetti.

2. Sonorità. Qualità timbrica del suono, rivolta ad esprimere col colore proprio delle vocali e delle consonanti quanto c'è di puramente formale, ma anche di significativo, nel timbro fonetico.

3. Teatralità. Teatralità intesa come espressione degli affetti per mezzo delle inflessioni vocali.

E’ logico inferire che, stanti questi ideali estetici, le tecniche vocali dovettero essere tali da soddisfarli. Come poi questo possa essere stato realizzato in pratica è ovviamente argomento per un altro discorso.

NOTE

 

1 Garçia, Manuel, Traité complet de l’art du chant, Paris, l’auteur, 1847. Trad. it. a cura di Mazzucato, Alberto, Trattato completo dell’arte del canto, parte I, Milano, Ricordi, s.d.

2 Ibid., p. VI, nota 2: lettera letta all’Accademia delle Scienze di Parigi il 19 aprile 1841.

3 Ibid., p. XIII,

4 Ibid., p. XIII.

5 Wicart. A., Le Chanteur, Paris, Éditions Vox, 1931, tomo I, pp. 230-241: Variations de l’émission par principes mécaniques.

6 Husson, Raoul, La voix chantée, Paris, Gauthier-Villars Éditeur, 1960, capp. VII-X.

7 Della Corte, Andrea, Vicende degli stili del canto dal tempo di Gluck al Novecento, in "Canto e Belcanto", Torino, Paravia, 1933, p. 244: "Donzelli, che non sapeva né poteva fiorire, fu forse il primo a usare quella voce sombre, oscura, in opposizione alla voce chiara".

8 Ibid., p. 252.

9 Maragliano Mori, Rachele (1894-1992), nota oggi per il suo libro Coscienza della voce nella scuola italiana di canto, Milano, Curci, 1970.

10 Claude Le Jeune: c.a. 1530-1600; Jean-Antoine de Baïf: 1532-1589.

11 Si veda sull’argomento Bonniffet, Pierre, Un ballet démasqué. L’union de la musique au verbe dans "Le Printans" de Jean-Antoine de Baïf et de Claude Le Jeune, Paris-Genève, Champion-Slatkine, 1988.

12 Delle Lettere del S.or Gio. Camillo Maffei da Solofra. Libri due. Dove tra gli altri bellissimi pensieri di Filosofia, e di Medicina, v’è un discorso della Voce e del Modo d’apparare di cantar di Garganta, senza maestro..., Napoli, Raymundo Amato, 1562. Edizione moderna in Bridgman, Nanie, Giovanni Camillo Maffei et sa lettre sur le chant, "Revue de Musicologie", XXXVIII, Juillet 1956.

13 Maffei, G.C., Delle Lettere…, p. 198 in Bridgman, op. cit., p. 9.

14 Zacconi, Ludovico, Prattica di musica, Venezia, Polo 1592, c. 52v.

15 Rostirolla, Giancarlo, La Cappella Giulia in San Pietro negli anni palestriniani, "Atti del Convegno di studi palestriniani 1975", Palestrina, Fondazione G. P. da Palestrina, 1977, pp. 172-202.

16 Monteverdi, Claudio, Lettere, dediche e prefazioni, a cura di de’ Paoli, Domenico, Roma, De Santis, 1973, p. 48.

17 "santo pietro" (sic): la cattedrale di Mantova, dedicata ai SS. Pietro e Paolo.

18 Giulio Romano (Giulio Pippi de Iannuzzi), pittore e architetto (Roma 1492 - Mantova 1546).

19 Monteverdi, op. cit., pag. 86.

20 Mancini, Giovanni Battista, Riflessioni pratiche sul canto figurato, Milano, 1777, Art. XII. "Dell’agilità della voce". Riedizione moderna in Della Corte, op. cit., pp. 184-185. (Fac-simile, Bologna, Forni). Il libro era apparso a Vienna nel 1774 col titolo: Pensieri e riflessioni pratiche sopra il canto figurato.

21 Lo stesso Maffei dice altrove (Lettere…, p. 29) che chi vuol dissertare del canto con autorità "fa di mestiere che non solo Musico sia, ma anchora dottissimo medico e filosofo". (Bridgman, op. cit., p. 3, nota 2.

22 Svetonio Tranquillo, Caio, De Vita Cesarum libri VIII, "Nero", 20, in Vitali, Guido, testo latino e versione di, "Le vite dei dodici Cesari", II, p. 79, Bologna, Zanichelli, 1954: "a poco a poco prese anch’egli a studiare e ad esercitarsi, senza tralasciare nessuna di quelle cose che tali artisti solevano usare per conservarsi o migliorarsi la voce, come: tener sul petto, giacendo supino, una lastra di piombo;…".

23 Cfr. Storey, G., La riabilitazione funzionale respiratoria nella pratica clinica, Torino, Edizioni Medico Scientifiche, 1979, p. 139: "L’impiego di una fascia per irrobustire i muscoli respiratori".

24 Mercuriali, Girolamo, Artis Gymnasticae apud antiquos… libri sex, Venezia, Giunta, 1601, p. 155.

25 Mercuriali, op. cit., c. 110r., "Non di meno è necessario tenere sempre a mente quel detto di Avicenna, per il quale l’emettere voce molto a lungo è da temere e ciò perché dalle predette esercitazioni di voce sovente accade che si formino in numero ernie ed altre crepature, come i sacerdoti delle nostre parti o i cantori possono testimoniare con certezza".

26 Ramazzini da Carpi, Bernardino, Le malattie degli artefici..., Venezia, Occhi 1745, p. 279.: "Suonatori di stromenti da fiato, (...), Cantori, Predicatori, Monaci, e ancora (...) Monache a motivo del continuo Salmeggiare ne’ Cori; gli Avvocati da tribunali, i Banditori, i Ripetitori, i Filosofi che nelle scuole disputano fin ad affiochire (...) Cotesti dunque per lo più sogliono patir d’ernia.

27 Brunelli, Antonio, Vari esercizii, Firenze, Zanobi Pignoni e Comp., 1614. Ediz. mod. a cura di Richard Erig, Musikverlag zum Pelikan, Zürich, 1977.

28 Adami, Andrea, da Bolsena, Osservazioni per ben regolare il coro de i cantori della Cappella pontificia, Roma, Antonio de’ Rossi, 1711, p.34. Fac-simile a cura di Giancarlo Rostirolla, Lucca, Libreria Musicale Italiana Editrice, 1988.

29 Bridgman, op. cit., p. 18.

30 Bovicelli, Gio. Battista, Regole, passaggi di musica, madrigali, e motetti passeggiati:…, Venezia, Giacomo Vincenti, 1594.

31 Un’edizione moderna di Io son ferito ahi lasso, messo a confronto con il travestimento spirituale e l’intero madrigale originale si trova in Wolff, Hellmuth Christian, Originale Gesangsimprovisationen des 16. bis 18. Jahrhunderts, Köln, Arno Volk Verlag, 1972, pp. 67-83

32 Rognoni Taegio, Francesco, Selva de varii passaggi secondo l’uso moderno…, Milano, Filippo Lomazzo, 1620, "Avvertimenti alli Benigni Lettori".

33 Bovicelli, op. cit., p. 14.

34 Brunelli, op. cit. "Avvertimenti a i benigni lettori", p. 1 non num.

35 Tosi, Pier Francesco, Opinioni de’ cantori antichi e moderni, o sieno Osservazioni sopra il canto figurato, Bologna, Lelio della Volpe, 1723, p. 111. Riediz. moderna in Della Corte, op. cit.. Fac-simile di ristampa del 1904: Bologna, Forni. Facsimile allegato a: Agricola, Johann Friedrich, Unleitung zur Singkunst. Aus dem Italiänischen…, a cura di Jacobi, Erwin R., Celle, Hermann Moeck Verlag, 1966. Fac-simile dell’adattamento inglese: Observations on the floridsong, or Sentiments on the ancient and modern singers…, (London, 1743), Genève, Minkoff, 1978.

36 Tesauro, Emanuele, Il cannocchiale aristotelico, o sia idea delle argutezze heroiche vulgarmente chiamate imprese…, Torino, Gio. Sinibaldo, 1654.

37 Aristotele.

38 Bembo, Pietro, Delle Prose di M. Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua…, Venezia, Tacuino, 1525. Ristampa moderna a cura di Dionisotti, Carlo, Torino, UTET, 1960.

39 Panigarola, Francesco, Il predicatore… overo parafrase, commento, e discorsi intorno al libro dell’elocuzione di Demetrio Falereo…, Venezia, Giunti, Ciotti & Compagni, 1609.

40 Tesauro, op. cit., p. 213.

41 Monteverdi, Claudio, Ecco mormorar l’onde, in "Il Secondo Libro de Madrigali a 5 voci…", Venezia, Gardano, 1590. Testo di Torquato Tasso. Ediz. moderna: Tutte le opere di C. M., a cura di Gian Francesco Malipiero, "Il Vittoriale degli Italiani", 1926-1942. Ediz. anastatica Vienna, Universal Edition, s.d.

42 Quelle fondamentali sono facilmente accessibili in: Solerti, Angelo, Le origini del melodramma, Torino, 1903, fac-simile, Bologna, Forni. Id., Gli albori del Melodramma, Torino, 1903. Fac-simile, Bologna, Forni 1976.

43 Ganassi, Silvestro, Regula Rubertina, Venezia ad instantia de l’autore, 1542. Fac-simile, Bologna, Forni, 1976, p. VI.

44 Cavalieri, Emilio de’, Rappresentatione di Anima, et di Corpo, Roma, Nicolò Mutij, 1600. Fac-simile: Farnborough, Gregg Press Ltd, 1967.

45 Battaglia, Salvatore, Grande dizionario della lingua italiana, X, Torino, UTET, 1978, p. 1031.